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Angelo Vintaloro

Presidente Archeoclub Corleone e Componente la Commissione sull'età dei metalli dell'Unione Internazionale delle Scienza Preistoriche e Protostoriche

Labirinto di Erice nella grotta di Polifemo

Scoperto nel 1986 da Giovanni Vultaggio, presidente dell’Archeoclub di Trapani, il pittogramma presente sul soffitto della Grotta di Polifemo – sul litorale del territorio di Erice – che rappresenta un arcaico labirinto di tipo classico, venne datato dall’archeologo Sebastiano Tusa al 3000 a. C. (M. Rigoglioso, The oldest labirinth in the world?, in: Caerdroia 29, 1988). Più vecchio, quindi, dei più antichi esemplari di labirinti presenti nella Carelia e nel Baltico, datati dagli archeologi russi al III – II millennio prima di Cristo (G. Pavat et al., Fino all’ultimo Labirinto, Youcanprint, 2013, p. 221).

Posta proprio accanto alla più nota ed agevole Grotta Emiliana, ad un’altezza di una cinquantina di metri s. l. m., la Grotta di Polifemo se ne distingue dalla precedente sia per la sua divisione in almeno due grandi vani, separati tra loro da uno stalagmite che si congiunge al soffitto come un pilastro, sia per le conformazioni rocciose varie ed eterogenee al suo interno, sia infine per le numerose rocce presenti specie all’ingresso, probabilmente frutto di frane o smottamenti avvenuti nel corso dei millenni.

Il vano rialzato costituito dalla metà sinistra della grotta, profondo all’incirca 7 metri, presenta un soffitto piuttosto basso e digradante verso il fondo. Su di esso ad un’altezza di 1 metro e 30, si trova appunto il pittogramma del labirinto in ocra rossa, costituito da sei volute concentriche e grossomodo ellittiche per un diametro massimo di 30 cm. Immediatamente di lato – nonostante il forte degrado del colore – si indovina anche una figura antropomorfa, sempre di colore rosso, che anche a detta degli archeologi che l’hanno studiata, sembra essere costituita da una testa stilizzata, due braccia alzate, ed una lunga tunica “a campana”. Con la mano sinistra essa sembra reggere qualcosa, come un corno, dipinto in colore scuro. L’immagine ne ricorda un’altra, antichissima, ovvero la “Venere di Laussel”, una delle tante raffigurazioni paleolitiche della Grande Madre dalle forme prosperose ritrovate un po’ in tutta Europa. La Venere di Laussel (Francia) regge appunto nella mano sinistra un corno con tredici tacche, simboli della luna e del numero di lunazioni (o anche cicli femminili secondo alcuni) esistenti nell’arco di un anno. La medesima immagine con la testa stilizzata, le braccia alzate, e la lunga gonna a campana ricorda per un altro verso anche le raffigurazioni e le statuette delle più antiche divinità femminili cretesi, anche del periodo più arcaico dell’isola minoica. Ma mentre queste ultime sono più o meno contemporanee all’età stimata dei pittogrammi, la Venere di Laussel ha un’età di 20.000 anni, troppo antica dunque per avere qualche collegamento con le figure della Grotta di Polifemo, le quali esaminando le prove archeoastronomiche – come si vedrà più avanti – vennero prodotte proprio intorno al 3.000 a. C., e forse più precisamente tra il 3183 ed il 3039 a. C.

Per completare la descrizione della grotta, sul soffitto roccioso a poca distanza dal labirinto e dalla dea, si riconoscono le tracce sbiadite di altre figure, quali un toro in stile orientale, due code di pesci – forse tonni – che emergono da una chiazza rosso ocra, e parecchie macchioline sempre rosse che alcuni studiosi hanno ipotizzato trattarsi di stelle o costellazioni.

Scenografia solare. L’ingresso della caverna guarda verso nord-ovest, il che significa che è potenzialmente allineato col tramonto del sole nel giorno del solstizio d’estate. Il punto dell’orizzonte dove da quelle parti tramonta il sole al solstizio estivo è l’azimuth 301 (ponendo chiaramente 0 = Nord, 180 = Sud, ecc.). Ed in effetti dall’interno della grotta quel punto è visibile sull’orizzonte marino proprio immediatamente sotto uno sperone roccioso che si protende verso il distante litorale. Da osservazioni e rilevamenti effettuati da me personalmente nei giorni del 21 e 22 giugno 2015 e documentati con le foto allegate, risulta che nei giorni a cavallo del solstizio i raggi del sole al tramonto penetrano nella grotta con effetti spettacolari. Anche se infatti l’interno della parte sinistra della grotta (dove vi sono il labirinto e gli altri pittogrammi) viene illuminato dalla gialla luce solare per alcune settimane precedenti e successive al 21 giugno, è soltanto in corrispondenza dei tre giorni a cavallo del solstizio estivo che il sole subito prima di tramontare riesce a superare di poco il basso sperone roccioso sullo sfondo, e ormai rosso e prossimo a toccare il mare inonda di luce color granata l’interno della caverna, con effetti a dir poco suggestivi. Questo effetto scenografico non poteva certo passare inosservato agli antichi, che diedero un valore sacro alla Grotta di Polifemo, e dopo averla dotata dell’immagine del labirinto, della Dea Madre e di altre figure simboliche, iniziarono a svolgervi i loro riti solari in corrispondenza appunto del solstizio estivo.

Durante la sua visita, assieme alla moglie Kimberly, ad Alatri (FR), Jeff Saward, una delle massime autorità mondiali in fatto di Labirinti, non si limitato a ammirare l’affresco del “Cristo nel labirinto” o a visitare gli altri monumenti della cittadina laziale. Ha avuto un simpatico e proficuo scambio di informazioni e idee assieme ai ricercatori italiani, capitanati da Giancarlo Pavat, che l’hanno accolto in Ciociaria. Si è parlato a lungo (anche a tavola, a pranzo) di Labirinti; del loro studio, della tutela di quelli antichi e della realizzazione di quelli moderni. Durante questo vero e proprio “brainstorming” si è parlato di quali possano essere i più antichi labirinti al momento noti agli studiosi. Quasi casualmente è saltato fuori un esemplare situato in Sicilia, di cui nessuno dei presenti aveva mai sentito parlare. Si tratta di un labirinto dipinto sulla volta di una caverna che si apre non lontano da Trapani: la “Grotta di Polifemo”.

Lo stesso Saward, meravigliandosi che in Italia non si sapesse nulla di questo esemplare, ravvisandone l’assoluta importanza, ne aveva parlato sulla sua rivista “Caerdroia”, pubblicando sul numero 29 del 1988 un lungo articolo di Marguerite Rigoglioso di Boston (USA); “The oldest labirinth in the world?”. In cui, come si evince dal titolo stesso, veniva ventilata l’ipotesi che potesse trattarsi del labirinto (al momento noto) più antico del Mondo.

Pavat, che da alcuni anni sta conducendo ricerche sul campo inseguendo le tracce dell’archetipo del labirinto, si è subito attivato informando diversi ricercatori siciliani. Nessuno conosceva questo labirinto. Sembrava che fosse stato avvolto in un sudario da “congiura del Silenzio”. Tra i ricercatori informati da Pavat, c’era il dottor Ignazio Burgio, autore, tra l’altro del libro “Le civiltà stellari” (Narcissus.me, 2014), vincitore per la categoria “Archeoastronomia” del “Premio Nazionale Cronache del Mistero 2014”.

Burgio ha compiuto diverse ricognizioni nella “Grotta di Polifemo”, esperto di archeoastronomia, si è subito accorto della possibilità che il sito dove era stato dipinto il Labirinto non fosse stato scelto a caso. Pertanto ha organizzato una nuova spedizione in concomitanza del Solstizio d’Estate.

Quello che segue è il lungo articolo, vero e proprio saggio, che Burgio ha scritto a seguito delle entusiasmanti scoperte effettate nella “Grotta di Polifemo” nei giorni attorno al Solstizio d’Estate.

Proprio la correlazione tra il ciclo annuale del sole, la Grande Madre e la relativa semplicità arcaica dei simboli, svela non solo il significato dell’immagine della Grotta di Polifemo, ma in realtà anche di tutti i labirinti (perlomeno di quelli dell’età antica). A differenza degli esempi dei labirinti classici più tardi, come quelli micenei, etruschi, ecc., il labirinto della Grotta di Polifemo possiede non sette, bensì solo sei volute concentriche: proprio come i sei mesi che intercorrono tra un solstizio e l’altro. I cerchi concentrici in altre parole simboleggiano le differenti altezze nel cielo che il moto apparente del sole percorre dal solstizio invernale a quello estivo, per poi tornare a ripercorrere in senso calante il medesimo cammino nella seconda parte dell’anno. Probabilmente allora non è nemmeno un caso che le tre linee/orbite superiori del pittogramma siano interrotte da quella piccola imperfezione grigia della roccia a forma di occhio. Esisteva certamente già prima che vi venisse dipinto il labirinto, ma gli antichi artisti lo inglobarono nel loro affresco proprio a simboleggiare il disco solare che nei periodi dell’anno di maggiore altezza – corrispondenti ai tre mesi primaverili (in ascesa) ed estivi (in discesa) – esprime tutta la sua potenza stagionale.

In analogia con altri riti di altre culture, mediterranee ed europee, la Grotta di Polifemo doveva servire anche come luogo sacro per eseguire riti funebri, in cui il corpo del defunto veniva illuminato dalla luce solare, e con l’aiuto della Dea Madre Terra – di cui le pareti illuminate di rosso riproducono simbolicamente le intime viscere – ottenere una nuova gestazione e una nuova reincarnazione, a somiglianza del seme interrato che riemerge alla luce in forma di pianta. Le volute inferiori del labirinto dipinto sul soffitto della caverna dovrebbero infatti riprodurre il percorso sotterraneo del sole “defunto” che molti popoli antichi – ad es. gli Egizi – immaginavano dopo il tramonto nel corso della notte, in attesa che la Madre Terra (la dea Hathor per gli Egizi) partorisse nuovamente all’alba l’astro diurno.

Si ripropone insomma quanto già detto in altre sedi a proposito della interpretazione del (molto più tardo) mito del labirinto cretese in chiave solare: la Dea Madre del mondo dei morti, Arianna (la “purissima” o la “luminosa” secondo l’etimologia del suo nome), dona allo spirito del defunto, simboleggiato da Teseo, il rosso filo di lana, ovvero il raggio di sole, affinchè dopo avere sconfitto i mostri minacciosi degli inferi (l’antropofago Minotauro) possa venire guidato dal medesimo filo rosso/raggio solare verso la luce, con una nuova nascita (cfr. I. Burgio, Le civiltà stellari, Narcissus.me, p. 128).

Anche i Minoici di Creta del resto veneravano caverne-santuari (utilizzate sia come necropoli che per altri usi) chiamate in lingua asiatica labra, da cui secondo alcuni studiosi – come F. Vian – sarebbe derivato il termine “labirinto”. I ricercatori infatti ormai da parecchio tempo non danno più credito alla classica etimologia proposta da Plutarco che interpretava il termine arcaico labrys come “ascia bipenne” (che in realtà era pelekys per i Greci, e Wad per i cretesi), e secondo un’altra diversa interpretazione fanno risalire la parola labirinto al termine minoico Da-pyr-into, con la quale gli antichi Cretesi si riferivano alle divinità ctonie, come la Dea Madre Terra (G. Pavat, Fino all’ultimo labirinto, cit. pp. 39-40). Da-pyr-into, di difficile interpretazione, forse può venir tradotto con l’espressione “il fuoco (spirito, vita) dentro la terra (Da)”. Una delle più famose caverne dell’isola di Creta era l’Antro di Amniso, dedicato alla Dea Madre Ilizia, dove al compiersi dei nove mesi le donne incinte si recavano per partorire (F. Vian, Le religioni della Creta minoica e della Grecia achea, Laterza, p. 10).

Tornando alla Grotta di Polifemo, è bene precisare comunque che nonostante gli straordinari effetti solari al suo interno, né i più forti raggi gialli, né quelli rossi del sole arrivano a toccare la figura femminile o il labirinto, ma si arrestano a pochi centimetri dalle immagini. Tuttavia è possibile che anticamente il sole riuscisse ad illuminarli, poiché sono proprio i massi all’ingresso della grotta che sbarrano la via agli ultimi raggi: probabilmente quei massi all’ingresso sono il frutto di frane o terremoti che in questi cinquemila anni si sono verificati nella zona (come del resto è anche il parere di alcuni studiosi).

In ogni caso sembra che gli artefici delle figure presenti nella Grotta di Polifemo dovessero appartenere a quelle genti originarie del Mediterraneo orientale, di cultura e religione anatolica-egea – i famosi e misteriosi “Pelasgi” – che, come dimostrato dai ritrovamenti archeologici, nascondendosi agli occhi degli storici antichi sotto il nome di Elimi, diffusero proprio intorno al 3000 a. C. anche in Sicilia (oltre che in Sardegna), il culto della Grande Madre, dei cicli stagionali del sole, e della rinascita della natura e delle anime dopo la morte, strettamente connessi tra loro (terza “ondata migratoria” in Sicilia dopo le precedenti culture di Stentinello e della “ceramica dipinta” – cfr. L. Bernabò Brea, La Sicilia prima dei Greci, Il Saggiatore, 1966, p. 58 e sgg.). Quelle stesse genti che nell’arcipelago maltese costruirono i templi megalitici di Tarxien, Mnajdra, Ggigantija, Hagar Qim, pieni di statue e simboli della Madre Terra, in cui i raggi del sole producono spettacolari effetti di luce ai solstizi ed agli equinozi. E che molto probabilmente fondarono anche nel Lazio meridionale, centri urbani dallo stile megalitico, di cui ancora oggi rimangono ad esempio le imponenti mura della cittadina di Alatri (Fr).

Vi sono tuttavia anche altri straordinari fenomeni astronomici legati alla Grotta di Polifemo ed al solstizio estivo, che fanno sospettare una stretta connessione con una civiltà ancora più sofisticata anche dal punto di vista astronomico, ovvero quella dei Sumeri.

Le sorprese di Venere. Se con un buon programma informatico di astronomia (ad es. Stellarium) si torna indietro nel tempo e si ricostruisce la mappa del cielo intorno al 3000 a. C. si può osservare qualcosa di interessante: al solstizio d’estate – che all’epoca per effetto della precessione degli equinozi avveniva nella costellazione del Leone – il pianeta Venere ogni otto anni tramonta dopo il sole nel medesimo punto dell’orizzonte, ovvero l’azimuth 301. Anche la luminosa “stella della sera”, seguendo il suo ciclo ottennale, dava dunque spettacolo di sé a chi si trovava all’interno della grotta, seguendo il sole oltre l’orizzonte nel suo viaggio notturno di rinascita all’interno della Madre Terra. Questa precisa congiunzione astronomica tuttavia poteva avvenire soltanto tra il 3183 ed il 3039 a. C. Dopo tale data infatti, sempre per effetto della precessione, la coincidenza non risulta più precisa, ed adesso il pianeta Venere non “si tuffa” più in mare nello stesso punto del sole, ma tramonta dietro lo sperone roccioso. Certamente anche per un tale spettacolo astronomico, dai precisi significati simbolici e religiosi per le genti dell’epoca, venne scelta proprio la Grotta di Polifemo come “luogo di culto”.

Questa osservazione è importante non solo perchè potrebbe dare un’ulteriore conferma della datazione del labirinto e degli altri pittogrammi fornita da Sebastiano Tusa (retrodatandola semmai di qualche centinaio di anni), ma anche perchè è in grado di chiarire tanti altri enigmi.

Esattamente nel medesimo periodo infatti in Sardegna, veniva edificato il primo nucleo di un tempio piramidale oggi noto come “la zigurrat” di Monte d’Accodi, a poca distanza dalla città di Sassari. Come hanno scoperto gli archeologi anticamente essa era dipinta di rosso, ed un paio di secoli dopo venne inglobata all’interno di una costruzione più grande “a terrazze”, come una vera e propria zigurrath mesopotamica. Gli scavi nella zona hanno permesso di recuperare numerose statuette femminili, di stile egeo-cicladico, un contenitore con resti di ocra rossa, ed una stele con disegni di losanghe e spirali. I ritrovamenti più interessanti tuttavia sono stati una lastra di altare con sette fori, una pietra sferica raffigurante secondo alcuni studiosi le costellazioni, diverse tombe ipogee, ma soprattutto tre menhir con precisi allineamenti: verso mezzogiorno, verso le fasi lunari ed anche, cosa che sorprende ancora adesso gli archeologi, verso le fasi del pianeta Venere!

Se per un verso insomma può risultare certamente verosimile che furono i navigatori pelasgi provenienti dall’Egeo, dalle Cicladi, dall’Anatolia, e via dicendo, a diffondere anche nel Mediterraneo centrale le conoscenze astronomiche di base – come la suddivisione dell’anno in due gruppi di mesi luni-solari di trenta giorni, da solstizio a solstizio – oltre che i culti religiosi della Grande Madre, del sole e della rinascita, insieme ai connessi simboli della spirale e del toro; per un altro verso sorge il sospetto che tra di essi vi fossero anche genti mesopotamiche, probabilmente mercanti, dalle conoscenze astronomiche più sofisticate, quali appunto quelle relative al pianeta Venere ed alle sue fasi.

La Uruk di Sicilia. La fase iniziale della civiltà sumerica, ben prima del 3000 a.C., venne contraddistinta nella Mesopotamia meridionale dallo sviluppo di grandi centri urbani a scapito delle zone rurali circostanti. Fra queste città, in particolare Uruk nella parte più a sud, prospiciente il Golfo Persico, assunse grande importanza. Nume tutelare di essa era Inanna, che all’interno del pantheon sumerico era la dea della vegetazione, dell’amore e della guerra. Sotto il punto di vista astronomico, essa veniva identificata naturalmente col pianeta Venere. Secondo la religione sumerica era sorella sia del dio del sole Utu, come anche di un’altra dea, Ereskigal, sovrana degli inferi: due sorelle-divinità antitetiche eredi della Grande Dea Madre anatolica ed imparentate ambedue col sole, che rappresentavano ovviamente le due parti dell’anno separate dai due solstizi, quella col sole ascendente e positivo, e quella discendente e negativa.

Nel mito sumerico Inanna agli Inferi, la dea luminosa della bellezza e dell’amore scende nel regno dei morti per far visita a sua sorella. Gli inferi sumerici sono circondati da sette mura e chiusi da sette porte, ed ogni volta che Inanna ne varca una viene privata dai guardiani di uno degli attributi divini che costituiscono il suo potere, finchè dopo averli persi tutti e sette si ritrova inerme di fronte alla perfida sorella. E costei presa da astio la uccide con lo sguardo. Ci penserà Enki, dio delle acque, a riportarla in vita, ma la dea sumerica dell’amore per lasciare il mondo dei morti e tornare tra i viventi dovrà trovare un sostituto che rimanga al posto suo agli inferi, e lo troverà prima in Dumuzi, suo sposo, e poi anche nella sorella di questi, Geshtinanna, che si farà carico di sostituire il fratello nel mondo dei morti per sei mesi l’anno.

Questo mito sumerico, lontano antenato dei corrispondenti miti greci di Demetra e Persefone, è naturalmente anche all’origine del mito classico della nascita (o meglio: rinascita) di Venere che ogni otto anni, nel medesimo punto dell’orizzonte, rinasce dal mare e da una conchiglia (che in tempi remoti doveva essere non una comoda e larga patera, bensì una conchiglia a spirale – figura del mondo sotterraneo da cui ritornare alla luce dopo un tortuoso e lungo percorso). Da quanto emerge dalle antiche tavolette cuneiformi, già prima del III millennio a. C. gli astronomi Sumeri conoscevano bene il pianeta Venere ed i suoi correlati cicli celesti.

La ricca e potente città sumerica di Uruk, già intorno al 3000 a. C. – come attestato dalle tavolette cuneiformi e dagli scavi – intratteneva una fitta rete di scambi con molte regioni anche distanti e remote, persino con l’Anatolia, il Mar Egeo e l’Egitto, diffondendo in tal modo anche il culto della dea Inanna, i suoi miti e le conoscenze astronomiche relative al pianeta Venere. I mercanti della metropoli sumera devono aver raggiunto oltre Malta, anche la Sicilia, la Sardegna e forse anche il Lazio. Sulle robuste navi dei primi fiorenti centri dell’Egeo – Milo, Paro, Poliochni, ecc. – devono aver fondato insieme ai Pelasgi-Elimi empori e colonie anche sulla costa occidentale della Sicilia. Su quest’isola le tracce del loro passaggio sono ormai praticamente scomparse, ed anche le iscrizioni cuneiformi scoperte nel 2012 dall’archeologo Alberto Scuderi nella Valle dello Jato (Pa), così come la “zigurrath” tronca di Cerumbelle a Pietraperzia (Cl), secondo gli studiosi sono più giovani di almeno duemila anni.

Tuttavia, proprio sopra l’altipiano montuoso che ospita lungo la costa la Grotta di Polifemo insieme alle tante altre caverne, esiste ancora oggi la loro antichissima città principale, chiamata Iruk nella loro arcaica lingua, Erech nella lingua semitica dei Cartaginesi (il medesimo termine che nella Bibbia indica proprio la città mesopotamica di Uruk), ed Erice, nelle lingue più recenti. Proprio come la loro madrepatria mesopotamica, essa era anticamente famosa per un grande tempio dedicato alla dea della bellezza e dell’amore – l’Inanna sumerica, l’Ishtar babilonese, l’Ashtar (Astarte) fenicia, la Tanit punica, e l’Afrodite/Venere greco-romana – famoso presso tutti i marinai e i naviganti che transitavano per il Canale di Sicilia. Questo tempio scomparve insieme all’età antica ed al suo posto si trova adesso un castello medievale. Ma dell’antica Uruk/Erice rimangono ancora soprattutto le imponenti mura ciclopiche, costruite con massi megalitici lunghi anche quasi due metri, e le tre porte d’ingresso alla città, perfettamente orientate ai tre tramonti più significativi dell’anno: il tramonto del solstizio estivo (Porta Spada, azimut 301); quello del solstizio invernale (Porta Trapani, azimuth 240); ed il tramonto all’equinozio primaverile ed autunnale (Porta Carmine, azimuth 270).

E naturalmente rimangono anche gli straordinari pittogrammi della sottostante Grotta di Polifemo, il cui labirinto, l’esempio più antico finora scoperto al mondo, potrebbe rivelarsi benissimo anche il primo esempio mai sviluppato nel corso della storia di questo simbolo: un archetipo, partorito da una geniale mano anonima, desiderosa di produrre qualcosa di diverso, più raffinato e sofisticato, rispetto alle solite spirali. Così l’idea di fondere l’immagine femminile della spirale – l’utero della Madre Terra – con la raffigurazione del ciclo solare alle differenti altezze nel cielo, diede vita ad un simbolo apotropaico di vita e rinascita, la cui fortuna dura ancora oggi da più di cinquemila anni!

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